MARIO BOTTA

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Quando ha deciso di voler diventare architetto?

Dopo l’apprendistato come disegnatore edile compiuto a Lugano, dal 1958 al 1961, presso lo studio Carloni-Camenisch. Per me è stato importante comprendere gli strumenti e le procedure di progetto prima di affrontare gli studi accademici allo IUAV di Venezia.

Quali le esperienze più significative della sua formazione?

Certamente gli incontri avvenuti a Venezia con Carlo Scarpa, durante i cinque anni d’Università; con Le Corbusier, in occasione del progetto per gli ospedali civili riuniti e con Louis Kahn per i lavori al Palazzo dei Congressi ai giardini della Biennale.

Come nasce un suo progetto? Che peso hanno analisi e intuizione?

I progetti hanno storie molto diverse fra di loro. Alcuni – i più felici – trovano risposte immediate dall’analisi del contesto: “il primo atto progettuale è l’analisi critica del sito” (L-C), altri richiedono un rovello tecnico-critico più prolungato. È innegabile però che la ricerca serva quanto l’intuizione.

Quanto ha influito il disegno digitale sul modo di lavorare? Che peso ha lo schizzo nella sua maniera di progettare?

Il disegno digitale sta cambiando radicalmente il modo di lavorare (trasmissione dei dati in tempo reale fra le differenti parti del mondo) ma si tratta, appunto, di strumenti operativi. Lo schizzo “tradizionale” porta con sé una speranza progettuale che il computer non offre. Personalmente non rinuncio mai allo schizzo che, per mezzo della mano, è in diretta relazione col pensiero.

Quanto la fase di cantiere incide sul risultato finale?

Sempre più la fase di cantiere incide sul risultato finale, poiché la distinzione fra pratica e progetto rappresenta una delle sfide più grandi da risolvere nel lavoro quotidiano di un architetto.

Crede che i vincoli siano un limite o un valore da volgere a proprio favore?

I vincoli sono indispensabili per ogni atto progettuale, sono parte essenziale della soluzione finale.

Preferisce lavorare con il pubblico o con il privato?

L’architettura per sua natura è un’attività sociale e pubblica, modifica lo spazio di vita dell’uomo per cui, indipendentemente dalla committenza è sempre un fatto collettivo.

Come riesce a bilanciare l’uso di materiali tradizionali e quelli più vicini alla recente tecnica delle costruzioni?

Spesso i nuovi materiali offerti dal mercato edilizio esasperano una retorica della tecnica che niente aggiunge al risultato finale. L’opera di architettura resta pur sempre un manufatto dell’uomo che scarica le proprie forze al suolo (il principio di gravità).

Le risorse rinnovabili. Pensa siano solo un rimedio agli errori del passato o anche una buona maniera per fare architettura?

Le architetture del passato sono sempre state “sostenibili”, invece la degenerazione del moderno ha creato edifici “maldestri” che hanno sollevato inevitabili critiche verso le nuove realtà. È logico che oggi si tenti di rimediare ai paradossali errori del passato e trasformare questi correttivi in nuove opportunità progettuali.

Quale il progetto che più la rappresenta o quello al quale è più legato?

Il prossimo progetto.

Il tema con il quale spera di confrontarsi nel prossimo futuro o quali i progetti già in divenire?

Mi auguro di poter lavorare ancora per qualche decennio attorno a temi che saranno di volta in volta definiti dalla collettività. Il vero committente per l’architetto è la storia.

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